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7 Aprile 2022   |   Corsi, Notizie

Il grido di preghiera che diventa un noi

CORSO SUI SALMI L’ANIMA E LA CETRA

IL GRIDO DI PREGHIERA CHE DIVENTA UN NOI

Di sguardi si vive così come si può morire, dicono i saggi. Avevamo sete di uno sguardo vivo e profondo, dopo circa due anni di pandemia e di (per fortuna) partecipazioni “on-line in remoto” ai corsi di Economia Biblica, tenuti con passione dal prof. Luigino Bruni – economista e biblista. Con questa sete di sguardi e corporeità siamo tornati al Polo Bonfanti per la condivisione in presenza di un’esperienza che non è stata solo un Corso sui Salmi, ma un vero e proprio grido – quello dell’uomo del Salterio – che da individuale si è subito tradotto nel “noi” della fraternità, essendo la preghiera un vero e proprio bene comune e, come la felicità, tale solo se condivisa. Similmente a quel Zaccheo della Gerico inespugnabile, provenienti dalle varie parti di Italia e dall’estero, nella biodiversità di carismi e talenti – formatori, insegnanti, coppie, imprenditori, seminaristi, suore –, coscienti della nostra piccolezza abbiamo osato sfidare le “folle” di preoccupazioni quotidiane per salire sull’ albero del sicomoro e sul monte di Loppiano, alti quanto basta per poterci far penetrare gli occhi e i bisbigli dalla forza trasformante della Parola.

Rispondendo alla provocazione dell’autore a non immedesimarci meccanicamente con il giusto – spesso noi stessi incarniamo con le nostre indifferenze il ruolo di chi assedia l’innocente – che porta al cielo il proprio grido quando è accerchiato dagli avversari, il Salmo 1 (Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi…) ci ha aperto le porte di questo viaggio nel Salterio, con l’invito a non praticare la via dell’empio ma soprattutto a saper aspettare, con il dono dell’attesa, la stagione che porta frutto in tempi spesso non corrispondenti alle nostre aspettative.

La “religione del merito” vorrebbe fosse esaltato il paradigma economico-retributivo della fede, dove i ‘bene-detti’ da YHWH vincono per i propri talenti, mentre i maledetti della Storia sono di conseguenza sconfitti perché colpevoli. Non così per il Salterio in cui, attraverso la preghiera dell’innocente che vive sventure inattese e immeritate proprio come Giobbe, Israele e ognuno di noi impara che la vita (e la Bibbia) è piena di “giusti falliti e di malvagi che hanno successo”, realizzando grazie agli esili più duri che persino un “Dio sconfitto può essere un Dio vero”, arrendendoci al fatto che  Dio non coincide con le nostre vittorie e che noi siamo più grandi delle nostre colpe (Bruni). Fondamentale, in tal senso, e’ stato l’apporto del prof Premoli (psicanalista), chiarificatore della sottile ma importante distinzione fra ‘senso di colpa’ e quel ‘senso della responsabilità’ che comporta un’azione riparatrice sulle cause che hanno generato il gli effetti (non sempre costruttivi) delle nostre scelte.

Il peso della gloria (Kabod) di YHWH è che l’uomo viva, diceva sant’Ireneo. La gloria di Dio è che il povero viva, parafrasava San Romero d’America, martire in El Salvador. La domanda dell’uomo del Salterio e di ognuno di noi è che Dio stesso ritorni a rendere viva la nostra consistenza e dignità, soprattutto quando le prove della vita ci prostrano e ci umiliano fino a renderci “inconsistenti” (hebel), privi di valore, ai nostri stessi occhi. La novità della Bibbia e dei Salmi è che anche Dio può cambiare direzione, può tornare e rendersi conto, insieme all’orante che urla la propria preghiera, che la Sua gloria è inseparabile dalla gloria dell’uomo, da quando gliel’ha trasmessa con l’atto della creazione.

La fede non è altro che quello “sguardo di ultima istanza”, in cui si viene raggiunti in un luogo dell’anima talmente profondo in cui persino noi stessi a volte ci troviamo come estranei. La fede è la corda (Fides) che ci lega ancora a quella Voce che crede in noi quando abbiamo smarrito, nelle notti oscure della vita, la coscienza delle nostre risorse e potenzialità, è Qualcuno che crede ancora e nonostante tutto nella nostra dignità a partire dalle nostre vulnerabilità. Veramente fragili come fili d’erba (Isaia) eppure fatti poco meno di Elhoim (Salmo 8). Ecco perché in ogni contesto di disumanizzazione siamo chiamati a essere testimoni dell’Incarnazione. Spesso la liberazione si trova semplicemente dall’altra sponda del fiume e ascoltando i Salmi e i profeti possiamo darci ancora una possibilità di attendere che in una stagione, forse anche l’ultima, arriverà una mano amica ad abbassare il ponte levatoio (Taubes) per passare indenni dalla paura all’amore condiviso.       

“Nessuna notte oscura, d’altronde, può uccidere l’anima se un profeta ce ne indica la direzione e il senso (Bruni)”: il Salmo 22 citato da Gesù sull’albero della croce del Golgota ci ricorda che la vera domanda che si rinnova ogni giorno nella Bibbia non è sull’esperienza della sconfitta ma della ‘solitudine nella sconfitta’ che a quel punto può essere morte senza resurrezione. Non è così per il Dio della vita che, identificato con il buon pastore del Salmo 23 si oppone all’orfanezza e all’abbandono appena gridati con il salmo precedente (22). 

Quel pastore che (proprio come il padre misericordioso) vive la logica dell’eccedenza e per questo – agli antipodi della massimizzazione del profitto – è disposto a rischiare tutte le altre pecore del gregge per abbracciare quella che si era smarrita o meglio che aveva smarrito la sua Voce. Il buon pastore e il profeta che anche in esilio ci ricordano che i pascoli erbosi possono trovarsi nei deserti, che anche senza tempio (Ezechiele) l’uomo può trovare Dio nell’umanità ferita. D’altronde il Figlio dell’Uomo (Ben’Adam) viene chiamato per nome (Gesù: Dio salva) non dai sapienti autosufficienti ma dai malati, dai ciechi, dagli indemoniati, dai malfattori in croce, che si appellano come ultima istanza alla Sua compagnia dentro le proprie ferite. La fraternità che nasce dall’“amore preveniente” – non sono giusto quindi vengo salvato, ma vengo salvato quindi pratico la giustizia –  non è mai a buon mercato quanto invece charis, gratuità scelta a “caro prezzo” di chi si fa prossimo degli sventurati, degli esclusi e dei perdenti. 

La fraternità cantata nel salmo 137, così come quella che nasce dal discorso della Montagna, apre nuove visioni ed è fortemente anti-meritocratica, ci ha in questi anni ricordato il prof. Bruni. In particolare se la guardiamo con gli occhi di quel figlio maggiore della parabola (del Padre misericordioso) al quale, a volte sottovoce e arrossendo un po’, ammettiamo di dare ragione. Ci chiediamo infatti, proprio come Caino e il fratello maggiore: “Sono forse io il custode di mio fratello?” 

Le fraternità sovversive, figlie delle Beatitudini, che non di rado potrai incontrare visitando Loppiano, ci ‘in-segnano’- con la pratica della testimonianza incarnata dell’amore agapico, anti-avaro ed eccedente, di reciprocità nella gratuità – che le parole di questo bel commento ai Salmi possono essere agite nella Storia. Entrano e incidono nella carne con ferite che diventano benedizioni, ci motivano l’anima a riprendere le cetre appese agli alberi durante i nostri esili perché non osavamo più cantare e danzare la vita. Aprono feritoie inaspettate che diventano luoghi in cui cambiamo nome, da figli dell’inganno – gli autoinganni con noi stessi e con la vita – diventiamo figli che sanno stare nella lotta e nelle asperità, soprattutto quando queste si coniugano con la liberazione degli ultimi e degli oppressi: ricordiamoci che insieme al purtroppo assai attuale orrore delle guerre, in Africa ad esempio, si muore ancora per malattie come la malaria, l’Aids, la tubercolosi e persino per il commercio di farmaci clandestini!

Pur chiamati quindi a essere “contemplattivi”, contemplativi nell’azione, pensavamo tuttavia che il nostro essere immagine somiglianza di Elohim fosse riflesso solo nella nostra parte orientata al Bene, e invece abbiamo sperimentato che l’umanesimo biblico non può escludere le nostre meschinità e che persino il segno di Caino è immagine riflessa della complessità dell’uomo, quindi di Dio stesso. 

Siamo partiti con buona probabilità pensando all’uomo del salterio, l’Adam figlio della terra e della preghiera, come a colui che contempla e custodisce il ‘già’ della Storia, abbiamo trovato parole, sguardi e soprattutto Presenza di chi come il salmista si addentra con forza in un dialogo generativo con un Dio che si lascia dare del Tu (come Giobbe), con un Dio che pensa che non è cosa buona che l’uomo sia solo ma che ha bisogno dell’uomo perché non è bene che YHWH sia solo. Un vero e proprio combattimento, una lotta a tu per tu con Dio che ci vuole profeti del “non ancora”, di quella felicitas generativa di esperienze di comunione, operatori di quella Pace osata per fede e orientata a forzare nuove aurore di Speranza. 

Il cammino arricchito da questi nuovi sguardi è appena iniziato, il libro dei Salmi adesso ci sembra meno lontano dalla nostra vita.